DOPO IL GRANDE SUCCESSOALL’EVENTO DI CHIUSURA DELLE ALTE ARTIGIANALITA’ DI DOLCE & GABBANA, IL TORRONIFICIO GERACI CONQUISTA UN NUOVO PRESTIGIOSO RICONOSCIMENTO
GourmArte 2017 ha attribuito il riconoscimento di “Maestro del gusto” al Torronificio Geraci, che produce torrone e specialità siciliane a Caltanissetta dal 1870.
Dopo il grande successo riscontrato nell’incantevole scenario del Castello Lanza Branciforte di Trabia per l’evento di chiusura delle Alte Artigianalità di Dolce & Gabbana, la Commissione che seleziona i prodotti chiamati a rappresentare il meglio dell’enogastronomia Made in Italy a GourmArte 2017 ha individuato il Torrone Bloc biologico di Geraci quale testimone d’eccellenza.
La Commissione GourmArte, presieduta da Elio Ghisalberti, ha quindi attribuito al Torronificio Geraci il riconoscimento di “Maestro del gusto” per l’anno 2017. La storica azienda nissena di torrone e specialità siciliane ritirerà il premio nel corso della VI edizione di GourmArte, che si terrà dall’1 al 3 dicembre alla Fiera di Bergamo.
Il Torronificio Geraci nel corso della sua lunga storia ha partecipato a numerosi eventi di prestigio ed ottenuto importanti riconoscimenti, come il Premio Massimo Alberini 2016 conferito dall’Accademia della Cucina.
Nel 2011 l’azienda Geraci è stata l’unica realtà produttiva siciliana ad essere premiata da UNIONCAMERE in occasione di “Italia 150. Le radici del futuro” tra le imprese che hanno fatto la storia d’Italia.
A questi premi più recenti se ne aggiungono molti altri, ottenuti dal Torronificio a partire dal 1895. L’azienda è anche presente in diverse pubblicazioni importanti, fra le quali il libro fotografico di Giò Martorana e Marco Ghiotto, “Dolce Sicilia” (Mondadori), terzo classificato al Gourmand World Cookbook Award 2012.
Per ulteriori informazioni:
Marcella Geraci (addetto stampa)
Cell. 328 3065513 – marcellageraci@hotmail.com
Torronificio M. Geraci Snc di Geraci Giuliana Dafne & C.
Via Canonico Pulci, 10/14
93100 Caltanissetta
Tel. 0934 581570
Nei mesi scorsi Palermo ha riscoperto i lustrascarpe grazie alla locale Confartigianato.
È bastata un’apposita selezione a richiamare settanta possibili “sciuscià” da destinare alle zone centrali del capoluogo siciliano. Ben settanta persone, alcune delle quali con laurea in tasca!
Anche a Caltanissetta questo antico mestiere non ha mai perso il suo fascino ma il merito è tutto di una sola persona, Giuseppe Romano.
Giuseppe dice di avere 87 anni ma guardandolo non si direbbe proprio.
Sarà la passione per il lavoro a mantenerlo così bene?
Tutte le mattine apre la sua bottega in corso Umberto, zona centralissima della città.
Con poche cose, un ombrellone per difendersi dal sole o dalle intemperie, due sedie, spazzole, lucido e attrezzi del mestiere, da ben 75 anni Giuseppe non manca mai all’appuntamento. Mai!
Nonostante le scarpe di oggi non siano più quelle di ieri e la pelle sia, in molti casi, un lontano ricordo.
«Se mi metto a riposo…» Giuseppe fa il gesto della morte. «Ho un passatempo» sottolinea di essere vedovo e di continuare a lavorare anche per questo.
Chi ama il centro storico di Caltanissetta riesce ad immaginare la strada del Collegio senza di lui?
A casa nostra, in questo periodo, i mandarini non mancano mai.
I nostri due alberi ne fanno una quantità industriale e non sarebbe possibile smaltirli se non preparassimo almeno un paio di ricette che, negli anni, abbiamo sperimentato.
Oggi vi proponiamo il sorbetto al mandarino come lo facciamo noi, per realizzarlo occorrono una gelatiera e tanta buona volontà.
Ecco gli ingredienti principali:
700 grammi di succo di mandarino
La scorza grattugiata di due mandarini
un albume montato a neve
300 grammi di zucchero
Versate 300 grammi di zucchero in una terrina, aggiungete la scorza grattugiata di due mandarini e mescolate bene permettendo agli ingredienti di amalgamarsi.
Rompete un uovo, separate l’albume dal tuorlo e montate l’albume a neve.
Incorporate l’albume al composto di zucchero e scorza grattugiata e mescolate fino ad amalgamare bene il tutto.
Con uno spremiagrumi ricavate il succo dai mandarini, filtratelo con un colino e aggiungetelo al composto sempre mescolando.
Versate il sorbetto in una casseruola e riscaldate a fuoco basso per pochi minuti.
Lasciate raffreddare, versate nella gelatiera e fate girare fin quando il sorbetto non sarà pronto.
Il risultato vi sorprenderà!
Si può passare dalla cassata della settimana scorsa alle mele cotte?
Se avete lo stomaco pesante ma non volete rinunciare al dolce, certamente.
Le mele cotte possono essere un fine pasto gustoso e facile da eseguire e la mia è una ricetta di battaglia che nasce dall’esigenza di avere un dessert leggero e digeribile.
Certo, esistono mille altri modi per preparare le mele cotte ma voglio suggerirvi anche il mio:
Tre mele (le Golden sarebbero state più indicate ma ho preferito usare le mele che avevo in casa);
tre bicchieri d’acqua;
tre cucchiai di zucchero di canna.
In realtà per evitare l’ossidazione delle mele occorrerebbe intingerle nel succo di limone.
Una spruzzata di cannella e qualche chiodo di garofano servirebbero poi a insaporirle maggiormente. Ma ho voluto ridurre all’osso la preparazione delle mele e ho scoperto che sono buone anche così.
Sbucciate le mele, privatele del torsolo e tagliatele a fettine.
Versate i tre bicchieri d’acqua in una pentola e aggiungete lo zucchero, mescolate il tutto e portate a ebollizione.
Quando l’acqua bolle, gettate le mele nella pentola e mettete un coperchio. Vi consiglio però di non coprire interamente la pentola ma di lasciare uno spiraglio per evitare che lo sciroppo fuoriesca.
Fate cuocere per 40 minuti se le preferite ben cotte, come me.
A cottura ultimata potete mangiarle ancora calde o fredde, a piacer vostro.
Non sembra niente di che ma il sapore della mela, resa morbida e avvolta da un piccolo tocco di zucchero, può aiutare a concludere un pasto degnamente.
Lo trovate sempre in via Scovazzo, intento a friggere e imbottire.
Pippo Labrone lavora nella sua bottega fin dalle prime luci del mattino per realizzare, insieme a suo figlio Totò, l’impasto che poi servirà a ricavare tante panelle gustose e croccanti.
Queste mezze lune di farina di ceci oggi fanno parte dello “street food” ma esistono da tempo immemore.
A Palermo le panelle si fanno con le erbe aromatiche, usanza che non esiste a Caltanissetta
Nelle nostre zone la panella è infatti nuda e profumi e aromi le vengono dati dall’olio bollente.
Una passione per il ciclismo alle spalle che lo ha portato a vincere diversi campionati regionali, Pippo ha oggi 75 anni e lavora da quando ne aveva dieci.
Da bambino vendeva le panelle prodotte da suo padre Salvatore, pioniere dell’attività e custode di una ricetta che si tramanda di padre in figlio.
Durante la seconda guerra mondiale, Salvatore era cuoco all’Istituto Testasecca, allora adibito ad ospedale militare.
Di origini palermitane ma trapiantato a Caltanissetta, Salvatore avviò la sua attività a guerra finita.
Oggi quell’attività esiste ancora, in un territorio dove la crisi economica ha tagliato le gambe a molti.
Il segreto di questo successo? «La qualità del prodotto» dice Pippo, categorico.
E un lavoro indefesso che lo ha portato ad aprire un altro chiosco nella zona periferica della città.
A noi non resta che augurargli di continuare a fare un buon lavoro!
La ricotta può non piacere e la pasta reale risultare molto dolce a quanti non amano la pasticceria.
Ciò detto, aggiungo che tutti (o quasi) mostrano di apprezzare la cassata per il suo aspetto.
Se la pasticceria siciliana è un vero e proprio colpo d’occhio, mademoiselle la cassata è infatti la regina di tutte le torte o almeno di quelle isolane.
La glassa la rende eterea e la pasta reale, vivace.
La corona di frutta candita, poi, le conferisce un aspetto regale e le vetrine di ogni pasticceria guadagnano in bellezza grazie a questo dolce, dalle origini che si perdono nella notte dei tempi.
Anche in questo caso, due scuole di pensiero tirano in ballo l’una i romani (dal latino caseum, formaggio) e l’altra gli arabi (qas’at, bacinella).
Le diverse varianti locali della cassata, inserita nell’Elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali, ci dicono però che le storie sulle sue origini non sono poche.
E anche se non è una torta di compleanno, si presta a qualsiasi occasione.
Non trovate anche voi?
Mi piace molto viaggiare in treno.
Mi piace girare la Sicilia in lungo e in largo osservando, dal finestrino, il paesaggio che cambia.
Le colline gialle di Caltanissetta coltivate a grano e bruciate dal sole lasciano spazio alla costa e ogni paesaggio ha le sue caratteristiche.
Sarà per questo che “Il mare colore del vino” è uno dei libri di Sciascia che preferisco.
Una raccolta di dodici storie che prende il titolo da una sola, quella che racconta appunto di un viaggio in treno.
Anche leggendo l’intero libro l’impressione è quella di percorrere la Sicilia nel tempo e nello spazio.
L’ironia di Sciascia guida il lettore attraverso dodici facce della stessa terra accomunate da un’unica sconcertante verità umana, dura e raccontata con spietata ironia.
In questo tragitto il lettore non viene, però, privato del divertimento.
Proprio per questo penso che il libro vi piacerà, se già non lo avete letto.
La violenza inflitta alle donne è interclassista e trasversale a tutta la società e lontanamente da quanto si possa pensare, si tratta di un fenomeno in prevalenza agito dalla ristretta cerchia dei familiari della vittima più che da estranei.
Ma ribellarsi ai propri aguzzini si può ed è proprio questo il messaggio del libro scritto a quattro mani dalle giornaliste Roberta Fuschi e Patrizia Maltese, intitolato “Violenza degenere, storie di donne che hanno sconfitto la paura” e pubblicato nel 2015 dalle edizioni catanesi Villaggio Maori con prefazione della sociologa Graziella Priulla.
Il libro raccoglie le testimonianze delle donne che gravitano attorno al centro antiviolenza Thamaia di Catania, il loro essere vittime di padri, fratelli, partner e il loro iniziale silenzio fra le pareti domestiche, spezzato dalla volontà di farcela a uscire dal tunnel della paura e di denunziare finalmente i propri aggressori.
Alessandra, Alessia, Chiara, Enrica, tutti nomi di fantasia che indicano situazioni realmente accadute e concluse da un sudato lieto fine.
La forza del libro è anche quella di documentare i passi avanti fatti dalla legislazione contro la violenza e di raccontare in modo ben documentato la nascita e l’evoluzione del centro Thamaia fra mille tribolazioni, dai fondi che mancano al superlavoro delle operatrici, non sempre reumunerato come meriterebbe, alle difficoltà e alla forza che occorre per andare avanti in un Paese dove sono ancora poche le risorse destinate al contrasto della violenza di genere.
In definitiva il libro è uno strumento utile per chiunque graviti attorno a questi fenomeni e una speranza per le donne che ogni giorno subiscono in silenzio la violenza di quanti dovrebbero invece rispettarle.
Fare vino e cibo all’insegna della legalità si può, parola di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie!
Nata nel 1995 Libera è oggi un coordinamento che assembla oltre 1600 associazioni e realtà che diffondono la cultura della legalità. Come? Attraverso una serie di azioni che vanno dai campi di formazione antimafia alle attività antiusura, dai progetti su lavoro e sviluppo a molto altro.
Annoverata dall’Eurispes come eccellenza italiana nel 2008 e inserita nella classifica 2012 delle cento migliori ONG del mondo stilata dal Global Journal, nel 2006 Libera ha dato vita all’Agenzia per lo Sviluppo cooperativo e la legalità con l’obiettivo di sostenere e rendere solida la crescita di quelle cooperative a marchio Libera Terra nate per rendere produttivi i beni confiscati ai boss mafiosi.
Del 2008 è invece il consorzio ONLUS Libera Terra Mediterraneo che raggruppa le stesse cooperative sociali che gravitano attorno al marchio Libera Terra e che oggi producono vino, agrumi, mozzarelle, olio extravergine d’oliva, pasta, legumi, miele, conserve e molto altro utilizzando i beni confiscati alle mafie.
Si tratta per lo più di centinaia di ettari e strutture produttive sottratti al controllo della criminalità organizzata in Sicilia, Calabria, Puglia e Campania e destinati alla produzione agroalimentare d’eccellenza realizzata e smaltita da nove cooperative e tredici botteghe che fanno capo a Libera.
Davvero un bell’esempio produttivo all’insegna di legalità, giustizia sociale, qualità, tradizione e rispetto delle persone sul quale ottenere maggiori informazioni consultando www.liberaterra.it.
Vera e propria specialità lombarda, la torta paradiso è una vera prelibatezza.
A colazione, a fine pasto (intinta in un vino dolce) o per merenda, questa torta non vi lascerà delusi, ideale soprattutto nei periodi invernali per il grande apporto calorico che contiene.
Per la ricetta abbiamo preso in considerazione il volume “Dolci da forno” della Scuola di cucina di Slow Food, edito per la prima volta dalla Giunti nel 2014.
Abbiamo però apportato alcune modifiche a nostro gusto per quanto riguarda i tempi di cottura e qualche ingrediente.
Per realizzare la torta paradiso occorrono:
Grammi 200 di burro
Grammi 300 di zucchero semolato
Quattro uova
Un pizzico di sale
Grammi 250 di fecola di patate
Grammi 50 di farina tipo 00
Una bustina di lievito chimico per dolci
Mezzo limone
Due cucchiai di rum scuro
Zucchero a velo (facoltativo)
Tirate fuori il burro dal frigorifero mezz’ora prima di preparare la torta, in modo da farlo diventare morbido e più facile da lavorare.
Montate quindi il burro con lo zucchero in modo da ottenere una crema spumosa e aggiungete prima i tuorli d’uovo e poi gli albumi montati a neve con un pizzico di sale.
Amalgamate bene tutto, anche con la frusta elettrica se occorre, e incorporate al composto il succo di limone filtrato e i due cucchiai di rum.
A questo punto unite all’impasto farina, fecola e lievito, filtrandoli con un colino o un setaccio e mescolando di nuovo tutto in modo da amalgamare bene gli ingredienti.
Visto che nella fase di cottura la torta cresce molto, utilizzate una tortiera a bordi alti, che abbia circa 25 centimetri di diametro, imburrata e infarinata se non è in silicone.
Portate la temperatura del forno a 180° e fate cuocere per un’ora.
A fine cottura, fate raffreddare il dolce e cospargetelo (se volete) di zucchero a velo prima di servirlo.
L’autore di Fight Club e Soffocare.
Così è scritto a proposito dello scrittore americano Chuck Palahniuk sulla prima di copertina di Invisible Monsters, bel romanzo trasgressivo pubblicato per la prima volta nel 1999 da Norton&Company.
E allora perché non parlare di Fight Club o di Soffocare? Perché Invisible Monsters è lo spazio letterario in cui si muove Brandy Alexander, un personaggio che solo un intervento chirurgico può far diventare completamente donna.
Ma Brandy (la Principessa Brandy) è molto ma molto di più, quasi un’eroina che tutti vorrebbero incontrare nel pieno di una crisi, proprio come accade a Shannon McFarland.
Shannon è una modella alla quale non manca nulla fino al momento in cui un colpo di fucile le sfigura il volto lasciandola anche priva della parola.
Da allora per Shannon tutto cambia: i riflettori si spengono, la carriera è stroncata, il fidanzato la tradisce con l’amica del cuore e l’invisibilità dalla quale viene avvolta la sua vita a causa dell’incidente diviene una dura condizione da affrontare.
«La tua capacità di percezione è completamente fottuta. Tutto quello di cui riesci a parlare è immondizia già accaduta. Non puoi basare la tua vita sul passato o sul presente. Devi raccontarmi del tuo futuro» (dalla Traduzione di Manuel Rosini per la Piccola Biblioteca degli Oscar Mondadori del 2003).
Questo Brandy dice a Shannon ma anche ai lettori che ne hanno bisogno come a chi parla di questo romanzo, in definitiva 227 pagine che costringono a ragionare sul modo in cui la percezione dei fatti può diventare strumento per reinventare sé stessi.
Il resto è l’America che Palahniuk fa narrare in prima persona alla protagonista del romanzo, una Shannon che muove il suo racconto dal prima della sua adolescenza al poi, costruendo, pagina dopo pagina, un finale da brivido.
Eccovi una delle prelibatezze più ghiotte della nostra cucina perché bollita, al forno o fritta, la patata resta un’indiscussa protagonista delle nostre tavole!
Di seguito, gli ingredienti:
Un chilo di patate
Due tuorli d’uovo
Sale quanto basta
Grammi 90 di Grana padano
Due uova
Pangrattato quanto basta
Olio per friggere
Lavate le patate e mettetele a lessare con tutta la buccia in una pentola di acqua salata.
Quando le patate saranno pronte, lasciatele raffreddare, pelatele e passatele in uno schiacciapatate.
Raccogliete la purea di patate in una ciotola e aggiungete il sale, il Grana padano e i due tuorli d’uovo.
Quando il composto sarà ben amalgamato dividetelo in piccole parti alle quali dare una forma cilindrica.
Sbattete infine le due uova con una forchetta in un piatto e intingete ogni cilindro per poi passarlo nel pangrattato.
Per la cottura è più comodo utilizzare una friggitrice.
Se la crosta di pangrattato sarà omogenea, compatta e ben distribuita su ogni cilindro di patate, la frittura risulterà dorata e uniforme, altrimenti le crocchette potrebbero sfarinarsi e voi non ottenere un buon risultato.
Santo Stefano di Camastra ha un’illustre tradizione di ceramiche, lo si può vedere visitando il centro della città, dove piccole botteghe espongono in vetrina o ai lati dell’ingresso le loro creazioni più significative e variopinte.
Un turista o chiunque apprezzi questi piccoli capolavori dell’artigianato può trovare a Santo Stefano ciò che più gli piace, dai piatti all’oggettistica, dai complementi d’arredo alla creazione di pavimenti con colori e figure della tradizione siciliana.
Insomma in questa città, dai numeri civici delle case alle fontane e ai muri, tutto parla di ceramica e ogni “mastro” ha la sua mano.
Fra tutte le produzioni di ceramica che Santo Stefano offre, l’azienda Fratantoni è degna di rilievo, fondata nel lontano 1935 da Pietro, Saro, Edoardo e Nino, figli del vecchio ceramicaro Filippo.
Dai primi oggetti in terracotta foggiati al tornio, i fratelli passano alla produzione meccanica dei vasi per uso vivaistico e negli anni Settanta avviano la produzione delle tipiche mattonelle maiolicate della tradizione stefanese.
Oggi l’azienda occupa i primi posti nel settore della ceramica e sperimenta tecniche innovative da affiancare alle produzioni tradizionali delle quali si dimostra esperta.
Per saperne di più è comunque possibile cliccare su www.fratantoni.it
La leggerezza profonda che Italo Calvino infonde ai suoi personaggi non risparmia neanche Marcovaldo, una delle figure più riuscite tra quelle create dalla penna del grande scrittore italiano.
Pubblicato per la prima volta nel 1963, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città è un libro composto da venti novelle per ragazzi ed è scritto a metà tra il forte retaggio che la civiltà contadina ancora esercita nel nostro Paese negli anni in cui la penna di Calvino tratteggia il suo personaggio, e cioè dagli inizi dei Cinquanta in poi, e i primi albori della società dei consumi.
Marcovaldo è un personaggio buono e un po’ sfortunato, che tende a suscitare le simpatie del lettore con l’aria impacciata dell’uomo di campagna trapiantato in una città che fa fatica a comprendere.
Sfortunato, buono e povero di mezzi, Marcovaldo affronta, insieme alla sua famiglia, le vicissitudini che l’ambiente urbano gli procura: dal mangiare funghi velenosi al dormire in una panchina che si rivela diversa dal luogo di libera serenità immaginato e così via.
Si tratta di un personaggio che vive ai margini di quella società opulenta che le possibilità di lavoro e la tecnologia contribuiscono a determinare, un uomo che sfugge cioè a quel boom economico che caratterizza l’Italia del Dopoguerra.
Marcovaldo è forse un libro per bambini, sicuramente un libro per ragazzi e (ci sentiamo di suggerire) un libro per adulti.
Lette dal basso del nostro presente, queste pagine di Calvino ci spingono a riflettere sul tema del difficile rapporto con un mondo in continuo cambiamento.
Questa torta al limone è molto semplice da realizzare e il fatto che non contenga lieviti la rende ancora più digeribile rispetto ad altri dolci.
Gli ingredienti da utilizzare sono i seguenti:
quattro uova
un limone non trattato dalla buccia compatta e in buone condizioni
grammi 300 di farina tipo 00
grammi 300 di zucchero
grammi 30 di burro
una noce di burro e un po’ di farina per ungere la teglia, nel caso non abbiate lo stampo in silicone.
Rompete le uova dividendo i tuorli dagli albumi e montate questi ultimi a neve ferma.
Mettete i tuorli in una terrina e aggiungete piano piano lo zucchero, sempre mescolando per ottenere un composto spumoso al quale unire gli albumi montati in precedenza.
Setacciate la farina un po’ alla volta sopra il composto di uova e zucchero e mescolate il tutto cercando di evitare che si formino grumi, magari usando la frusta elettrica.
Lavate bene il limone e grattugiate la scorza unendola agli altri ingredienti, aggiungendo infine il burro fuso.
Mescolate ancora tutto con la frusta elettrica e versate l’impasto in una tortiera unta o in uno stampo in silicone.
Portate la temperatura del forno a 180° e fate cuocere per un’ora.
A fine cottura capovolgete la torta su un piatto e fate raffreddare.
L’ingrediente principale da utilizzare per realizzare questa ciambella è lo yougurt bianco naturale, privo di zucchero.
I contenitori dello yogurt possono fungere da misurini per dosare gli altri ingredienti, anche se questa ciambella non è una torta “sette vasetti” classica.
Abbiamo infatti preferito non utilizzare fecola di patate e olio di semi ma una dose minima di olio d’oliva per rendere più morbido l’impasto.
Per preparare questo dolce occorrono:
Due vasetti di yogurt bianco naturale (grammi 250 in tutto)
Tre vasetti di farina tipo 00
Due vasetti di zucchero bianco semolato
Una bustina di lievito per dolci
Il fondo di un vasetto di olio extravergine d’oliva
Tre uova
Burro e farina per lo stampo.
Rompete le uova e separate i tuorli dagli albumi. In una terrina, unite lo zucchero ai tuorli e mescolate il tutto fino ad ottenere una crema spumosa.
A parte, montate gli albumi a neve, aggiungeteli al composto di tuorli e zucchero e mescolate per amalgamare bene.
Aggiungete quindi i due vasetti di yogurt, continuando a mescolare usando, se è il caso, una frusta elettrica.
A questo punto unite anche la farina, setacciandola con un colino, e il lievito, sempre setacciato.
Mescolate bene tutto e aggiungete il fondo di un vasetto di olio d’oliva (che l’olio non arrivi a metà vasetto, altrimenti ne risentirà il gusto della ciambella).
Mescolate di nuovo tutto con la frusta elettrica e ungete di burro uno stampo, cospargendolo infine di farina.
Versate l’impasto nello stampo e portate la temperatura del forno a 180°.
Se volete una ciambella ben cotta, lasciatela cuocere per un’ora, altrimenti 45 minuti basteranno.
Il metodo dello stuzzicadenti o della forchetta per verificare lo stato della cottura del dolce rimane sempre valido.
L’unico posto aperto tutta la notte è casa propria, questa sembra essere la certezza di fondo del romanzo di David Trueba.
Intitolato “Abierto todo la noche” e tradotto per la prima volta in Italia nel 1999, il libro narra le vicende della famiglia Belitre, ambientate in una delle tante palazzine nel cuore della Madrid degli anni Ottanta.
Anche se lo scrittore e giornalista madrileno ci ha di nuovo stupiti con la tragicommedia romantica “Blitz”, tradotta in italiano nel 2016 da Feltrinelli, le vicende dei Belitre non possono non essere ricordate per la simpatia che suscitano.
Un padre cinquantenne si sente schiacciato dalla sua identità di capofamiglia e una madre sempre oberata dagli impegni vive lo stress che le procurano i sei figli.
Poi c’è il nonno Abelardo, che ama scrivere versi e conversare con Dio, mentre la nonna Alma ha alle spalle una vita vissuta a contatto con grandi scrittori ed artisti e intrattiene una corrispondenza epistolare con la sua amica defunta Ernestina Beltran.
Ma i personaggi fuoriusciti dalla penna di Trueba comprendono anche sei ragazzi fra i nove e i ventotto anni, ognuno con una caratteristica.
Félix è il maggiore ed è appassionato di cinema, Basilio ha un aspetto terrificante, accompagnato da un grande talento artistico.
Nacho ha successo con le donne mentre Gaspar è uno scrittore in erba. Lucas è un amante dei pesci e Mathias, affetto dalla sindrome di Latimer, crede di essere il capofamiglia.
Autore di un improbabile quanto efficace trattato sull’aggressività sociale, uno psichiatra mancato pianta la tenda nel giardino di casa per svolgere la sua attività al servizio della famigliola, così come si prodigano per la famiglia le altre figure coinvolte nella storia.
Con il suo ritmo travolgente e la sua verve umoristica, “Aperto tutta la notte” ricorda alla lontana la saga dei Malaussène di Pennac e segna il successo di un autore tradotto in più di dodici lingue.
Volete migliorare la vostra postura e avere una muscolatura tonica o una colonna vertebrale più elastica?
Il vostro benessere psicofisico risente dei ritmi frenetici della vita quotidiana o dell’avanzare degli anni?
Ripensate voi stessi!
Il vostro corpo e la vostra interiorità possono trarre enormi benefici dai metodi sviluppati dal danzatore ungherese Juliu Horvath e compresi nel Gyrotonic Expansion System.
Questo speciale sistema di esercizio fisico assembla i principi della danza classica, dello yoga, delle arti marziali, del nuoto e della ginnastica, armonizzandoli in una disciplina che permette al corpo di andare oltre i suoi limiti e di migliorare nel suo complesso.
Il Gyrotonic Expansion System è un’attività ideale per grandi e piccini, danzatori e atleti, amanti del fitness e donne che vogliono recuperare la forma fisica dopo il parto. Ideato negli anni Ottanta del secolo scorso e ormai diffuso nel mondo, il Gyrotonic è molto diffuso anche in Italia e non soltanto nelle grandi città.
Chiunque voglia praticare quest’attività a Caltanissetta o ottenere maggiori informazioni a riguardo può, per esempio, cliccare sul sito internet www.gyrotoniccaltanissetta.it
La giusta attenzione al respiro e alla postura del corpo e la dinamicità multidirezionale dei movimenti, principali caratteristiche di questo metodo, vi permetteranno di riscoprire la vostra dimensione di persone.
“Gelato al cioccolato, dolce e un po’ salato” dice il refrain del grande successo musicale cantato da Pupo.
Con il suo colore scuro e quel sapore dolce non ben definito, il gelato al cioccolato può essere considerato un intramontabile leitmotiv della gelateria. Chi possiede una gelatiera può prepararlo a casa utilizzando gli ingredienti che più preferisce. Per la nostra versione leggera abbiamo utilizzato il cacao amaro e il risultato non vi deluderà:
Un litro di latte parzialmente scremato
Grammi 125 di cacao amaro
Grammi 600 di zucchero
Due albumi d’uovo.
Rompete le uova separando i tuorli dagli albumi e montate questi ultimi a neve.
Mettete lo zucchero in una casseruola e aggiungete, setacciandoli con un colino, i 125 grammi di cacao amaro.
Amalgamate bene il tutto e incorporate gli albumi a neve, continuando a mescolare.
Versate infine il latte parzialmente scremato e mescolate in modo che non si formino grumi.
Mettete la casseruola sul fuoco basso per una decina di minuti, continuando a mescolare in modo che gli ingredienti si fondano bene ma senza arrivare ad ebollizione.
Lasciate raffreddare il composto a temperatura ambiente e, quando si sarà raffreddato, riponetelo in frigorifero per qualche ora.
Versate infine il composto nella gelatiera e se un giro non dovesse essere sufficiente a far mantecare il gelato, programmatene un altro.
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